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15 Aprile 2014

Alberobello: il gusto dei trulli

E di quel Brut Rosé di Primitivo che conquista Montecarlo

 

Ogni mio viaggio ad Alberobello racchiude l’attesa di una nuova scoperta. Quale aspetto inedito potrà mai questa cittadina serbare oltre ai trulli che ne hanno fatto l’emblema della Puglia?

Forse la sua stessa essenza, custodita nella storia della sua fondazione. E dire che questo spettacolo di pietra nasce dall’elusione di un editto seicentesco, che imponeva l’autorizzazione regia dietro pagamento di una tassa, per ogni nuova costruzione fatta erigere nel regno.

Fu un conte astuto e riottoso, Giangirolamo II Acquaviva d’Aragona passato alla storia come il “Guercio delle Puglie”, a escogitare il sistema di copertura con trullo. Leggende secolari tramandano che questo indomito personaggio ambisse a fare della Silva Arboris Belli (così si chiamava Alberobello quando, prima dei trulli, c’era la “selva dell’albero della guerra”) un feudo indipendente dalla corte di Napoli. Non tollerando l’idea di indirizzare le rendite fiscali al governo centrale, l’astuto feudatario impose ai sudditi l’obbligo di costruire le casedde a secco, con la tecnica certosina della pietra a incastro: nel caso di ispezione regia per riscuotere la tassa sul costruito, sarebbe bastato lanciare un cappio al pinnacolo del trullo per farlo crollare nel più breve tempo possibile, disseminandone le pietre sui campi.

Il racconto di questa storia è un viaggio nel fascino degli intrighi pugliesi. E in una visione dall’alto, tutto sembra trovare il suo posto, la sua ragione, il suo perché. Come quei cilindri e coni che si smontavano e ricomponevano, dissolvendo e addensando quello che mi piace definire il borgo delle tende di pietra, nato per essere necessariamente temporaneo e finito col diventare storicamente duraturo. Trovo che in questo miraggio di trulli apparsi e scomparsi, risieda l’alchimia della riscoperta. Perché pur ricostruiti, mai più quei trulli sarebbero stati uguali a prima.

Esisterà al mondo un luogo più incredibile e fantasioso? Di certo esisteva nel 1948 quando, su questa collina a 420 mt sul livello del mare, uno sparuto gruppo di contadini iniziò a produrre un vino e un olio da una terra rossa, calcarea, ricca di sali minerali, oggi fulcro della cultura enologica e olearia della Puglia dei trulli.

«Ad adunarli in questa impresa fu mio padre, Pietro, all’epoca un giovane laureato in economia e commercio».

Fra i sentieri campestri della bassa Murgia, Francesco Tauro mi riporta allo spirito inventivo e operoso di suo padre a cui è dedicata la Cantina Sociale di Alberobello, che lui amministra da trent’anni. «È nato tutto dal coraggio di alcuni agricoltori della zona che, partendo dal nulla, presero in affitto un vecchio stabilimento vinicolo e iniziarono a conferire le uve prodotte nei propri vigneti e trasportate all’interno di botti scoperchiate sui carretti in legno».

Francesco Tauro, laureato in economia come suo padre e grande appassionato di cavalli murgesi da cui mutua il portamento fiero e mansueto, era un bambino quando l’uva veniva scaricata nel palmento. «Erano lunghi momenti di festa e di aggregazione. Si creavano code interminabili di viticoltori che, nell’attesa, si raccontavano i fatti del posto. La nostra cantina è nata così, dagli sforzi di quei contadini partiti da zero e dalla loro speranza che fioriva nelle più totali incertezze».

La sua è una dedizione che ha colto tutte le trasformazioni. Cosa fermenta in questo periodo storico?

«Io faccio il consulente, ma quando mio padre è morto, nel vivo della sua espansione imprenditoriale, sono stato catapultato qui a soli 23 anni. C’era un tessuto produttivo dinamico che via via si è spento, come l’entusiasmo degli agricoltori. È cambiato lo scenario, ma anche il paesaggio. I vigneti, sempre più ridotti, sono diventati improduttivi e poco remunerativi».

Cos’ha contribuito alla vostra svolta nel settore?

«Il nostro cliente principale era la Martini&Rossi. Negli anni ‘80 prelevavano 10 mila quintali di vino all’anno e la nostra verdeca serviva come base per fare il loro vermouth. Negli ultimi dieci anni ci siamo dotati di attrezzature all’avanguardia che ci hanno consentito di ottenere vini molto apprezzati anche all’estero: Belgio, Lussemburgo, Inghilterra, Germania e soprattutto Montecarlo, dove siamo particolarmente conosciuti».

Nel Principato di Monaco, il Brut Rosé di Primitivo 100% della Cantina Pietro Tauro da qualche anno si stappa durante il Gran Premio e nel 2011 ha accompagnato le celebrazioni del matrimonio del principe Alberto.

«Lo dobbiamo a Michel Piepoli, un grande imprenditore della gastronomia, originario di Alberobello, che risiede a Montecarlo da molti anni. Nel suo ristorante Le Bistroquet, nel cuore del Principato, serve i nostri vini e il nostro olio, che spiccano tra le centinaia di etichette del suo prestigioso wine bar. Per il nostro Spumante Brut Rosé ha curato lui l’etichetta con lo stemma del principato monegasco e l’ha chiamato Congratulations (si legge alla francese) in occasione delle nozze reali di Alberto di Monaco. Sulla terrazza del ristorante monegasco si beveva esclusivamente quel vino. In onore del principe, abbiamo voluto mantenere quella stessa etichetta che oggi contraddistingue uno spumante di grande successo».

Alla Mostra Nazionale dei Vini di Pramaggiore (Ve) la Cantina Pietro Tauro è stata l’unica azienda vinicola pugliese ad ottenere 5 medaglie d’oro su 5 vini presentati, traguardo per cui ha ricevuto il Bacco d’Argento Regionale. Nell’ambito dello stesso concorso, il pluripremiato vino rosso Imperatore 2010 ha ottenuto anche il premio Speciale Città di Pramaggiore.

«Il vino fa parte della mia vita, come l’olio. I profumi che si sentono durante la vendemmia sono meravigliosi. A San Martino si assaggiano i primi vini ed è un momento che evoca la mia infanzia. Se ci penso, rivedo i torchi a mano e le enormi vasche dove andava a finire questo liquido rosso. Sono sensazioni che rivivo quando verso un filo d’olio su un piatto di cime di rape bollenti».

Con che vino le accompagniamo?
«Con l’Imperatore! Una cosa meravigliosa...».

 

Questo flusso evocativo si sfuma nella visione del paesaggio, animato dal bagliore bianchissimo dei cilindri di pietra che puntellano il terreno della valle. Mi chiedo a chi sia dedicata quest’altra etichetta dal richiamo nobiliare.
«A mio padre, che invece diceva che il vino è un prodotto povero. Era la sua filosofia, per me il suo più grande insegnamento».

Buon vento.



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